![]() DIALOGO O MONOLOGO? UNA GRANDE SFIDA EDUCATIVA
I genitori sono sempre più assorti nel lavoro, nei problemi economici e familiari e non hanno tempo per i loro figli, quindi, soprattutto al nord, si deve ricorrere alle babysitter oppure alle ludoteche, agli asili nidi o ad altre agenzie. Ma ci siamo chiesti se queste persone estranee educano bene i nostri figli? Non basta avere un buon curriculum per essere un buon educatore! Bisogna essere attenti, scrupolosi, vigili, ma soprattutto ascoltare i bisogni del bambino. Al sud invece, c’è la possibilità di ricorrere ai nonni, persone famigliari che accudiscono volentieri i propri nipoti. Eppure, a volte non si ascolta il minore. La famiglia (mamma e papà) quale prima agenzia educativa, voluta persino da Dio, ha il compito di non lasciare da soli i suoi piccoli. Il dialogo è essenziale, tanto tra i due coniugi, quanto tra loro e i figli. Etimologicamente la parola “dialogo” deriva dal latino dialŏgus, e dal greco διάλογος, che significa appunto “conversare, discorrere”, altrimenti si tratterebbe fare dei monologhi come quelli che vediamo al teatro. Già nel III-IV secolo a.C. Socrate utilizzò il dialogo come metodo educativo per condurre il proprio interlocutore verso la ricerca della verità e per conoscere se stesso. Pensiamo anche a Gesù, che ancor prima del filosofo, dialogava (e mangiava pure!) con uomini e donne, farisei e pubblicani e persino con i bambini. Infatti Egli stesso disse: “Lasciate che i bambini vengano a me”, come leggiamo nel vangelo di Matteo 19,14. Ecco come lo stesso Giovanni nel prologo 1,1 narrò come lo stesso Dio si rivelò all’uomo con la Parola, anche noi, uomini e donne, genitori, educatori e non, dobbiamo dialogare con i bambini e non solo. Anche gli adulti, in ognuno dei quali c’è “un piccolo fanciullino”, come disse Pascoli, devono confrontarsi, aprirsi all’altro, perché l’io e il tu possano diventare noi. La globalizzazione e la multiculturalità sono i presupposti da cui si può iniziare a costruire un dialogo, perché la diversità religiosa e culturale, possano diventare motivo di unità, di comunione fraterna. Innanzitutto, per entrare in dialogo con l’altro, bisogna essere sicuri della propria identità per entrare in empatia. Non si può condannare a priori l’altro solo perché ha una fede diversa, o ha il colore della pelle diversa. L’era dell’apartheid è finita! Ma, ahimè, ciò è ancora motivo di lotta. Pensiamo al terrorismo dell’ISIS, che in Kenya ha ucciso i cristiani, oppure all’attacco al museo di Mosul (Iraq). Quanti scempi, orrori dovremmo ancora vivere o vedere? Perché questo? Certo, non tutti sanno dialogare e preferiscono litigare, obbligare, costringere. Questa è la tattica del più forte. Ma, dialogare significa essere disposti a cambiare o a migliorare qualcosa di sé per essere disposti all’altro. Ciò però non significa necessariamente condividere le ragioni dell’altro, quanto piuttosto amare l’altro per quello che è, accettare anche i suoi difetti per camminare insieme. Ecco allora l’urgenza educativa a cui ognuno è chiamato: educare le nuove generazioni al dialogo, all’incontro, al rispetto della diversità, alla libertà religiosa, perché ognuno ha qualcosa da donare all’altro e ha il diritto di essere ascoltato. Come ci insegna papa Francesco: “Poi la prudenza dello Spirito Santo ci dirà come rispondervi. Partire dalla propria identità per dialogare, ma il dialogo, non è fare l’apologetica. Il dialogo è cosa umana, sono i cuori, le anime che dialogano, e questo è tanto importante! Non avere paura di dialogare con nessuno". |